L’Europa prova a reagire alla complessa questione della “dipendenza da chip”, attivando un proprio piano da quasi 50 miliardi finalizzato a raddoppiare la quota di produzione di semiconduttori da qui al 2030. Non è l’autosufficienza, ma una mossa che punta a dipendere sempre meno dai giganti asiatici – Taiwan in testa – sulla scia di quanto sta facendo l’America di Biden. Si occupa del tema il quotidiano La Repubblica, con un articolo a firma di Valentina Conte pubblicato lo scorso 7 Febbraio: Il Chips Act, il disegno di legge sui microchip, verrà presentato domani dalla Commissione Ue. E conterrà misure importanti: a partire da una maggiore flessibilità sugli aiuti di Stato che consenta di erogare sussidi alle imprese produttrici e una stretta sull’export come clausola di salvaguardia, sul modello di quanto fatto con i vaccini anti-Covid. In caso cioè di gravi crisi nelle catene globali di approvvigionamento – come quella attuale – l’Ue potrà bloccare le esportazioni di semiconduttori e dei componenti necessari alla loro produzione. Fermo restando – dice la bozza del provvedimento – “un approccio cooperativo” con i principali concorrenti: Taiwan, Singapore, Giappone, Corea del Sud, Cina e Stati Uniti. I soldi freschi del maxi-piano Ue sono però solo 12 miliardi: 6 dal bilancio comune e altri 6 dai governi nazionali, da impiegare nella ricerca e sviluppo di chip sicuri ed efficienti dal punto di vista energetico. A queste risorse si aggiungono altri 30 miliardi di investimenti pubblici già previsti dai governi e foraggiati dal Recovery Fund, dall’altro programma Horizon Europe e dai bilanci degli Stati. In fase di studio anche un fondo da 5 miliardi dedicato alle start-up.

Nel suo articolo Valentina Conte sottolinea inoltre come Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, durante il Forum di Davos dichiarava: “Entro il 2030 il 20% della produzione di microchip deve essere in Europa”, tenendo presente che la produzione mondiale raddoppierà. Con la crescita IoT i microchip sono ormai ovunque, in auto, elettrodomestici, nei sistemi di riscaldamento, nei nostri ospedali, nei ventilatori salvavita: non esiste digitale senza chip. L’Europa lo sa e vuole attrezzarsi.

La transizione eco-digitale sta determinando notevoli evoluzioni cambiamenti per l’economia e la società. Per le aziende il tema primario è quello di poter disporre di persone in grado di concretizzare specifici progetti che mentre soddisfano i nuovi bisogni del mercato, sanno anche essere sviluppare competitività. Dedica attenzione al tema Affari&Finanza, magazine economico del quotidiano La Repubblica, con un articolo a firma di Luigi dell’Oglio, pubblicato lo scorso 7 febbraio:
I numeri raccontano fino a un certo punto quello che sta accadendo nell’economia e nella società, entrambe attraversate da una doppia transizione epocale, verso un modello di sviluppo più sostenibile di quello che ha caratterizzato negli ultimi decenni e dominato dalle tecnologie digitali. I due ambiti si intersecano e si condizionano, dato che le nuove tecnologie sono la via maestra per abbattere le emissioni inquinanti in una molteplicità di settori, dai trasporti all’immobiliare, fino all’industria, oltre che per migliorare l’accesso ai servizi essenziali, contrastare il traffico, ottimizzare l’allocazione delle risorse naturali (in particolare quelle disponibili in quantità limitate) e collegare tra loro persone che si trovano fisicamente distanti. L’integrazione tra i due ambiti è la strada maestra della crescita secondo l’Ue, che nella Nuova Strategia industriale per l’Europa sottolinea come la trasformazione digitale consenta di migliorare la competitività economica delle imprese, rendendo al contempo possibile raggiungere gli obiettivi di sostenibilità.


Come si sottolinea nell’articolo, l’evoluzione in corso impatta direttamente sul mercato del lavoro. Non solo le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa cambiano, ma anche i contenuti. La doppia transizione in atto richiede anche figure professionali che fino a qualche anno fa non esistevano o erano chiamate a svolgere funzioni molto diverse dalle esigenze attuali. Personalizzazione del prodotto, cura per i dettagli e selezione di prodotti sostenibili: sono esigenze che oggi possono essere soddisfatte meglio del passato combinando il tradizionale saper fare tipico dell’artigianato Made in Italy e potenzialità offerte dalle nuove tecnologie. La formazione scolastica non tiene il ritmo del mercato e questo spiega perché molte aziende fatichino a trovare professionalità adeguate: a seconda delle ricerche, il problema dello skill shortage viene segnalato dal 30 al 50% delle imprese intervistate. Vale in primo luogo per quelle legate al digitale, tanto che l’indice Desi sulla digitalizzazione negli Stati europei ci vede indietro proprio per il ritardo sul fronte delle competenze, ma anche per alcune attività in cui rilevano le competenze artigiane, il saper fare che in molti casi occupa un ruolo centrale nei distretti italiani. Una distanza, quella tra domanda e offerta di lavoro, che pesa sulla competitività del sistema-Italia e sul quale occorrerà intervenire in maniera radicale per invertire al più presto la rotta.

Con un apposito comunicato al mercato e ai media, Vodafone ha dichiarato il proprio no alla manifestazione preliminare di interesse per il 100% di Vodafone Italia arrivata da Iliad e Apax Partners. In particolare si specifica che il prezzo ipotizzato (circa 11 miliardi) è troppo basso.

La proposta, aggiunge sempre il gruppo, “non è nel migliore interesse degli azionisti e per questo è stata rifiutata”. Il cda e il management di Vodafone restano quindi “concentrati nel creare valore per gli azionisti attraverso una combinazione tra la strategia di crescita organica nel medio termine e l’ottimizzazione del portafoglio in corso”. La società, inoltre, “continua a perseguire pragmaticamente molte opportunità di consolidamento che creino valore per ottenere strutture di mercato sostenibili nei suoi principali mercati europei, tra cui l’Italia”.

Dedicano attenzione alla questione le testate del Gruppo Il Sole 24 Ore, in particolare con un articolo a firma Andrea Biondi pubblicato lo scorso 10 febbraio su Il Sole 24Ore.com:
Si chiude così, per ora, una partita lampo che ha visto Iliad uscire allo scoperto nei giorni scorsi rendendo noto di aver fatto recapitare al gruppo Vodafone un’offerta per le attività italiane. Quell’offerta, che secondo i primi rumors si sarebbe dovuta attestare sui 14 miliardi di euro, e che gli analisti avevano stimato su valori variabili, a una media di 11-13, si sarebbe attestata secondo le ultime indiscrezioni sugli 11 miliardi. Evidentemente troppo poco per la multinazionale inglese delle TLC che, se avesse dato seguito alla cosa, sarebbe nei fatti uscita da quello che è il suo terzo mercato mondiale. Nel Paese a guidare le attività del colosso delle TLC è l’ad Aldo Bisio. In questo quadro, occorre considerare le parole del CEO di gruppo Nick Read che da ultimo nella conference call di presentazione dei conti, mercoledì 2 febbraio, ha evidenziato come la multinazionale sia aperta a possibilità di concludere operazioni anche con «velocità e determinazione» – citando come mercati sui quali ci si è focalizzati Uk, Italia, Spagna e Portogallo – ma al giusto prezzo. Evidentemente questa condizione al momento non c’è. Da qui la decisione di rifiutare l’offerta in un momento in cui Vodafone come gruppo è alle prese con l’entrata nel capitale di due fondi attivisti: Cevian Capital AB e Coast Capital.

Il termine STEM è composto dalle iniziali di varie discipline e indica Science, Technology, Engineering and Mathematics (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). L’attenzione per tali materie è dovuta sempre più anche all’incremento dei posti di lavoro nel settore tecnologico e scientifico. Ambiti dove la presenza femminile è però ancora limitata e, spesso, sottostimata. Ne ha parlato la presidente della in-house del Mise, Eleonora Fratesi, in un’intervista rilasciata a Mila Fiordalisi, Direttrice di Cor.Com – Il Corriere delle Comunicazioni, pubblicata lo scorso 11 febbraio: “Disparità salariale, stereotipi duri a morire, una carriera sempre in salita”: parte dalla sintesi dello status quo, fatto dunque ancora di ostacoli, la presidente Fratesi, che dopo la laurea in Scienze dell’Informazione all’Università degli Studi di Pisa, ha lavorato in multinazionali e in ambito universitario, occupandosi di ricerca, sviluppo e innovazione digitale, diventando anche membro del consiglio di amministrazione del Cluster Smart Cities & Communities della Regione Lombardia per poi approdare al vertice della in house del Mise – al fianco dell’Ad Marco Bellezza – che ha in gestione una lunga serie di progetti, dal Piano Bul al wi-fi nei Comuni, passando per i progetti di connettività in scuole e sanità. E Infratel è anche il soggetto attuatore del Pnrr. “Gli ostacoli per una ragazza di una formazione nelle discipline Stem e in generale nel mondo del lavoro sono ancora tanti, in Italia più che in altri Paesi europei. Adesso se ne parla, e questo è un bene, ma non basta. Ci vuole un processo virtuoso che coinvolga famiglia, scuola, istituzioni e mondo del lavoro. Pochi sanno che, ad esempio, 8 donne hanno fatto la storia dell’informatica. Le barriere culturali restano forse l’ostacolo più difficile da superare”.

Mila Fiordalisi sottolinea come la questione si lega anche al cosiddetto “pay gap”, vale a dire lo squilibrio retributivo che condiziona tante ragazze nella decisione di intraprendere carriere scientifiche e nell’incoraggiarne una visione di tipo manageriale. A questo proposito, la Presidente Fratesi nell’intervista ricorda come In Italia, nel 2021, le posizioni di CEO occupate dalle donne sono scese al 18% rispetto al 23% registrato nel 2020, andando notevolmente sotto la media dell’Eurozona. E aggiunge “Il gender gap nel nostro Paese è quindi tutt’altro che vicino a scomparire, sebbene le donne costituiscano quasi la metà della forza lavoro complessiva”.

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