Ridare centralità all’istruzione tecnico-scientifica, dall’orientamento obbligatorio all’aggiornamento dei programmi. Incentivare la formazione continua e valorizzare la collaborazione tra pubblico e privato. Ma soprattutto puntare su obiettivi quantitativi concreti di formazione 4.0, con un’attenzione particolare per gli istituti tecnici superiori e facoltà di ingegneria. Sono stati i temi del Forumdi The European House – Ambrosettidi Cernobbio. Rivolge nuovamente attenzione al tema Affari&Finanza, magazine economico di La Repubblica, con un articolo a firma di Andrea Frollà, pubblicato lo scorso 19 settembre: La ricerca si è posta l’obiettivo di definire gli ingredienti essenziali per un effettivo rilancio delle competenze 4.0 nel nostro Paese, che sconta oggi un forte ritardo sulla formazione digitale, in ingresso e permanente. Gli analisti hanno passato ai raggi X i principali trend della digitalizzazione in due settori strategici del Sistema Italia, la manifattura e l’agricoltura, per individuare le competenze effettivamente richieste dal mercato. La buona notizia di partenza è che già oggi il 97% delle aziende manifatturiere e il 98% di quelle agricole coinvolte ha implementato progetti di digitalizzazione dei processi produttivi. Tuttavia, appena si entra nel campo delle competenze 4.0 emergono le prime differenze e i primi divari.
Come evidenziato nell’articolo, le sfide non riguardano solo la singola azienda ma, sempre più, richiedono approcci ecosistemici e integrati per trasformare le sfide in opportunità. La carenza di competenze è il principale fattore di freno allo sviluppo di progetti di manifattura intelligente e di agricoltura smart. L’Italia, rilevano gli analisti di The European House – Ambrosetti, registra un gap significativo con i partner internazionali rispetto alla formazione tecnica post-scuola e a quella continua. Per la manifattura risultano fondamentali le competenze più tecnologiche: si va dalle competenze di intelligenza artificiale, machine learning, data science e project management.
Così nell’articolo: Tra le proposte suggerite figurano l’investimento sull’orientamento obbligatorio a partire dal terzo anno di liceo per avvicinare il mondo Stem ai primi livelli di scolarizzazione, la ridefinizione dei percorsi e dei programmi in un’ottica di maggior allineamento con le esigenze delle imprese, e ancora toccare quota 200 mila iscritti agli Itsper colmare il divario con la Germania.
Sulla riorganizzazione delle TLC italiane che dovrebbe portare alla creazione di una rete unica con gli asset infrastrutturali di Tim e Open Fiber, i tempi non sembrano brevissimi visto il cambio di governo in arrivo in Italia ma, secondo il Corriere della Sera,il cda di Tim dovrebbe rivolgersi a breve a Cdp (socio di controllo di Open Fiber oltre che azionista di Tim) per assicurarsi che il processo vada avanti e per definire una proroga dei tempi rispetto al 31 ottobre previsto dalle intese.
Così nell’articolo a firma di Federico De Rosa, pubblicato lo scorso 21 settembre: Tim stringe su Cdp per incardinare il negoziato per la rete unica. Il termine per la firma degli accordi vincolanti scade il 31 ottobre ma in questi giorni sarebbe dovuta arrivare la proposta non vincolante su cui avviare la discussione per integrare l’infrastruttura del gruppo telefonico con Open Fiber. Come è già noto i tempi slitteranno a dopo le elezioni, ma il gruppo telefonico vuole essere certo dell’avvio del percorso ed entro questa settimana dovrebbe inviare alla Cassa una lettera formale per chiedere conferma delle intenzioni e concordare una proroga della scadenza. Tra oggi e domani i consiglieri dovrebbero sciogliere la riserva. Gli advisor di Cdp stanno lavorando a pieno ritmo per fare in modo che entro la prima settimana di ottobre la proposta sia pronta.
Come sottolinea l’articolista del Corriere, il processo decisionale potrebbe tuttavia richiedere più tempo: Il gruppo telefonico ha in agenda un consiglio il 29 settembre e Cdp il 27, ma restano da incastrare ancora alcuni elementi, tra cui il prezzo. Vivendi, primo azionista di Tim, ha fissato l’asticella attorno ai 31 miliardi di euro. Un valore coerente per avviare un negoziato. In questo modola media company francese punta ad allineare gli interessi di tutti gli azionisti di Tim, massimizzando l’incasso per la cessione di un asset strategico per il gruppo. La stima di Vivendi tiene conto anche di questo, ovvero del rischio operativo legato alla cessione dell’infrastruttura, oltre che del rendimento a cui rinuncerebbe Tim trasferendolo la rete a Cdp, e delle sinergie con Open Fiber. Cdp, secondo le indiscrezioni, valuterebbe la rete tra i 15 e 18 miliardi di euro e punta ad avere il 51%, quindi la maggioranza assoluta. Ma la Cassa potrebbe controllare la nuova società anche con una quota minore attraverso la governance, sull’esempio di Terna, di cui Cdp ha il 29% ed esprime la maggioranza del board, tra cui presidente e amministratore delegato.
Risale allo scorso febbraio il tentativo di Iliad insieme con il fondo Apax Partners per rilevare il 100% di Vodafone Italia, tramite un’offerta di oltre 11 miliardi rifiutata dalla telco britannica che però ha continuato a ribadire la propria intenzione di razionalizzare le attività in alcuni Paesi, Italia per prima.
Ha suscitato quindi notevole interesse la scelta di Xavier Niel, patron di Iliad, che nel giorno scorsi ha acquisito una partecipazione di circa il 2,5% in Vodafone attraverso il veicolo Atlas Investissement. Dedica attenzione al tema Mila Fiordalisi, in un suo editoriale pubblicato lo scorso 21 settembre su Cor.Com il Corriere della comunicazioni: “Atlas Investissement ha individuato in Vodafone un’interessante opportunità d’investimento, grazie alla qualità del suo portafoglio di attività e alle solide tendenze di fondo del settore globale delle telecomunicazioni”, rende noto la società puntualizzando di volere sostenere “l’intenzione di Vodafone, dichiarata pubblicamente, di perseguire opportunità di consolidamento in aree geografiche selezionate, nonché i suoi sforzi nella separazione delle infrastrutture”. Atlas Investissement – si legge ancora nella nota – “ritiene che vi siano opportunità per accelerare la razionalizzazione i Vodafone e la separazione delle sue infrastrutture, ridurre ulteriormente i costi, migliorare la redditività, accelerare lo sviluppo della banda larga in Germania e in altre aree geografiche e rafforzare la focalizzazione sull’innovazione”.
Come ricorda Mila Fiordalisi nel suo articolo, sebbene Atlas Investissement sia indipendente dal Gruppo Iliad e da Iliad Holding, la mossa di Niel potrebbe preludere a nuove operazioni. Xavier Niel ha investimenti nel settore delle telecomunicazioni in nove Paesi europei, con quasi 50 milioni di abbonati attivi e oltre 10 miliardi di euro di fatturato. È proprietario di iliad presente in Francia, Italia e Polonia, e di NJJ Holding, investitore in attività di telecomunicazioni in Svizzera e Irlanda.
Il più recente Programma nazionale per la ricerca (PNR) ha posto obiettivi ambiziosi per portare la ricerca di base italiana a un livello di finanziamento efficace. Da oltre un anno si cerca di riportare l’intensità della R&S (l’investimento in rapporto al PIL) a livelli pre crisi. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) in fase di sviluppo rafforzerà questa tendenza ma la sua azione terminerà nel 2026: dopo quella data l’Italia dovrà trovare il modo di mantenere costanti gli investimenti per non diminuire l’intensità della R&S. Dedica attenzione al tema il quotidiano Il Sole 24 Ore con un articolo pubblicato lo scorso 21 settembre: Un pessimo 2020, poi la risalita a partire dal 2021 con la possibilità concreta, quest’anno, di riagguantare i livelli pre-Covid. C’è il rimbalzo per la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese: il rapporto Istat segnala un -6,8% per il 2020, in piena pandemia, e con dati preliminari +5,2% per il 2021 e +3,9% per l’anno in corso, a quota 16,9 miliardi di euro, cifra che dovrebbe certificare il ritorno all’era ante crisi.
Come ricordato nell’articolo, nel 2020 ha registrato un tasso di crescita seppure limitato (+0,8%) solo la ricerca di base mentre hanno perso pesantemente terreno lo sviluppo sperimentale (-7,8%) e la ricerca applicata (-6,7%). Anche il personale impegnato dalle aziende in attività di R&S è diminuito, del 6,7%, in un quadro che ha visto una riduzione generalizzata: includendo anche le strutture pubbliche si sono persi 521mila addetti rispetto al 2019 (-4,3%). Estendendo poi l’analisi a tutti i soggetti (istituzioni pubbliche, private non profit e università) che effettuano attività di ricerca e sviluppo internamente con personale e attrezzature proprie, la diminuzione della spesa nel corso del 2020 è stata del 4,7% su base annua, per un totale di 25 miliardi di euro. Lo scenario rivela un netto miglioramento a partire dal 2021. Così nell’articolo: I centri pubblici, secondo le stime preliminari, hanno incrementato l’attività dell’8% nel 2021 e nell’anno in corso dovrebbero mettere a segno un ulteriore +3,8 per cento.