L’ingegneria oggi è di fronte ad una grande sfida: interpretare scenari che impongono storici cambi di paradigma, fornendo risposte creative, innovative ed efficaci. Senso critico e intelligenza creativa rappresentano la spina dorsale e la linfa vitale della leadership italiana nel mondo, fondata sull’ingegno unito al senso della bellezza. Su queste basi è nata la Fondazione Evolve, creata da Maire Tecnimont per promuovere l’ingegnere umanista. Dedica attenzione al tema il Corriere della sera con un articolo a firma di Daniela Polizzi pubblicato lo scorso 6 luglio: “Per la transizione energetica il ruolo dell’industria è centrale. Può essere un abilitatore del cambiamento e della trasformazione e fornire soluzioni al sistema – un modello replicabile, utile anche alla società civile – grazie alla tecnologia. Un ruolo chiave lo avrà l’ingegnere umanista». Fabrizio Di Amato è presidente di Maire Tecnimont, gruppo italiano di ingegneria per la trasformazione delle risorse naturali. Del ruolo di questo profilo culturale si è dibattuto in occasione dell’evento «L’ingegneria umanistica e la sfida della circolarità», accolto nella sede di Maire Tecnimont con ospiti come il sindaco Giuseppe Sala, l’assessore all’Ambiente della Regione Lombardia, Raffaele Cattaneo, il direttore del «Corriere della Sera» Luciano Fontana.
Come ricordato nell’articolo, anche la presidente della Commissione UE Von der Leyen nel suo programma for a New European Bauhaus, ha esortato la nascita di un “movimento del green new deal” in cui lavorino insieme ingegneri, cultura e scienza. La Fondazione Evolve, creata a fine 2021, si pone l’obiettivo di essere l’anello di collegamento tra passato, presente e futuro. Dispone di un archivio storico di settemila disegni e progetti che includono anche famosi ingegneri e architetti italiani, arricchito da una selezione di strumenti storici di misurazione e calcolo. Su questo patrimonio di base si vanno ad affiancare le varie iniziative, orientate ad accompagnare la formazione degli “ingegneri umanisti” del domani, figure in grado di contribuire al percorso di evoluzione dell’umanità fornendo soluzioni tecnologiche di eccellenza, ispirate ai progressi tecnologici e dell’intelligenza artificiale e in grado di interpretare i bisogni sociali, etici e ambientali nell’era della transizione energetica e della digitalizzazione.
Sul fronte del fatturato le piattaforme digitali dominano con 1.450 miliardi di dollari contro 960 miliardi degli operatori. La redditività netta è quasi doppia. Uno scenario caratterizzato inoltre della pressione fiscale, che spesso è decisamente inferiore per le big tech della Rete rispetto alle cosiddette Telco. La situazione risulta evidente consultando i dati dal rapporto pubblicato da Agcom intitolato “Piattaforme digitali e telco a confronto – 2012- 2021”. Ne parla Cor.Com – Il Corriere delle Comunicazioni in un articolo pubblicato lo scorso 7 luglio: L’analisi mette a confronto le principali dinamiche economiche, patrimoniali e reddituali registrate nel decennio 2012-2021 da alcune tra le principali piattaforme digitali e da un significativo campione di operatori telefonici presenti in Europa, Stati Uniti, Cina e Giappone. Tra gli Ott sono stati considerati Amazon, Apple, Facebook/ Google/Alphabet, Microsoft, Netflix, Spotify, Twitter; mentre nel secondo campione sono presenti At&t, British Telecom, China mobile, China Telecom, Deutsche Telekom, Iliad, Orange, Swisscom, Telefonica, Tim, Verizon, Vodafone. In generale, gli operatori europei sono quelli che risultano più in sofferenza. Lo studi si base sui report aziendali rivolti alla comunità finanziaria (comunicazioni trimestrali e bilanci annuali).
Come si ricorda nell’articolo di Cor.Com, tra il 2012 ed il 2021 la crescita media annua delle piattaforme è stata del 16,8%,valore nettamente superiore a quanto fatto registrare dalle telco nel loro complesso (2,1%). Tra le piattaforme, Facebook (ora Meta) ha registrato la dinamica di crescita più intensa (+41,8%in media all’anno). L’articolo indica poi alcuni dati riguardanti le Telco: L’andamento dei ricavi delle telco è maggiormente articolato, a seconda delle aree continentali di riferimento: gli operatori asiatici sono risultati quelli maggiormente dinamici, sia in termini annuali (con una crescita del 7,3% nel 2021), sia rispetto all’intero periodo considerato (+3,2% medio annuo). La crescita più contenuta nell’intero periodo è stata registrata dagli operatori europei (+1,0% medio annuo), con andamenti negativi per Orange, Telefonica, Tim e Swisscom.
Da rilevare inoltre che gli operatori europei, anche in ragione di più intense dinamiche competitive dei loro mercati, mostrano margini assai più contenuti, pari all’8,9% dei ricavi nel 2021, in moderato rialzo rispetto al valore medio (8,1%) degli ultimi cinque esercizi contabili. Molto “sensibile” anche il tema delle imposte. Come si ricorda sempre nell’articolo, nei dieci anni studiati la differenza in rapporto all’utile ante imposte è stimabile in una media annua nel 19,4% per le piattaforme e del 21,9% per gli operatori telefonici. La pressione fiscale delle piattaforme digitali è di circa 10 punti percentuali inferiore a quella delle telco (14,4% contro 24,3%).
Telecom Italia si divide in due, con un piano chiamato “Beyond vertical integration” (oltre l’integrazione verticale tra servizi e infrastruttura), che punta a scorporare la propria rete dai servizi. Il piano è stato presentato dell’AD Pietro Labriola lo scorso 7 luglio al CdA di Telecom e intende separare la rete dai servizi per ottimizzare i risultati operativi. La divisione sarà effettiva nel 2023. I dipendenti della rete dovrebbero passare da 21,4 a 15 mila. Secondo quanto riporta Fabio Savelli per il Corriere della Sera, in un articolo pubblicato lo scorso 8 luglio: il piano da una parte conferisce nella scatola NetCo la parte infrastrutturale, come rete primaria di cavi e dorsali, la secondaria di Fibercop dagli armadietti alle case, e quella estera, fatta anche di cavi sottomarini, di Sparkle – asset integrabili in futuro a quelli di Open Fiber. Nel pacchetto ServCo troviamo invece la parte dei servizi di operatore delle telecomunicazioni: dunque Tim Consumer, dedicata ai clienti domestici e alle piccole e medie imprese, Tim Enterprise” e Tim Brasil.
In una nota diffusa dal Management di TIM, si sottolinea come il piano consentirà di migliorare le performance operative con un focus economico finanziario specifico per ciascuna entità e di attrarre nuovi partner industriali e finanziari, permettendo di accelerare i processi innovativi e lo sviluppo di un’offerta sui nuovi business orientati alla transizione digitale. Inoltre, sempre secondo la nota di TIM, sarà possibile cogliere al meglio le opportunità offerte dalla transizione digitale e raggiungere contestualmente una struttura del capitale sostenibile, grazie ad un importante percorso di miglioramento della posizione finanziaria che prevede il deconsolidamento della rete fissa e l’eventuale ingresso di nuovi soci di minoranza in TIM Enterprise. Il piano illustra il contesto di mercato, i perimetri di attività e le attività strategiche, oltre alle modalità tramite le quali queste potranno competere nei rispettivi mercati di riferimento. In particolare NetCo, secondo TIM, può rappresentare il primo caso in Europa di realizzazione di un polo infrastrutture e tecnologie di rete in fibra a disposizione di tutto il mercato e con una presenza capillare su tutto il territorio nazionale. Concentrandosi sul wholesale, la divisione avrà il compito di accelerare il deployment della rete in fibra, con benefici nel medio-lungo termine dei cicli di investimento e dei relativi ritorni tipici del mercato infrastrutturale. Da ricordare come la Borsa ha accolto positivamente la separazione nonostante alcune le inevitabili incognite di un’evoluzione così importante.
I mercati di smartphone e Pc si stanno indebolendo e spingono verso la fine dell’emergenza dei semiconduttori. Anche il settore delle auto vede i primi spiragli, benché ci siano ancora problemi di approvvigionamento. Può sembrare un paradosso, ma le dinamiche dei mercati a volte si muovono autoregolandosi. Dedica attenzione al tema il quotidiano Il sole 24 ore, con un articolo a firma di Biagio Simonetta, pubblicato lo scorso 8 luglio: Il tunnel è ancora lungo, ma i primi spiragli di luce qualcuno inizia a vederli. La crisi dei semiconduttori, che da oltre un anno stringe in una morsa letale tutta una serie di comparti industriali, sembra mollare la sua presa, concedendo qualche timida speranza. I segnali arrivano da alcuni produttori di chip che stanno vedendo al ribasso le loro stime future. E non per incapacità produttiva, ma per un crollo della domanda figlia dell’inflazione e delle incertezze. Così, coi consumi in calo, l’industria del silicio sta iniziando a fare i conti con una situazione del tutto nuova rispetto al boom recente. Una specie di paradosso imprevedibile. Ciò che sta succedendo ha però una matrice abbastanza logica: la frenesia di acquistare laptop e altri gadget tecnologici esplosa con l’inizio della pandemia, sta svanendo sotto i colpi dell’inflazione che dissuade le persone dall’acquistare nuovi dispositivi o console da gioco. L’incertezza, del resto, non è mai stata amica dei consumi. Ed è così anche stavolta.
Come si sottolinea nell’articolo, lo scenario del settore pare stia cambiando rapidamente. E se per alcuni comparti la pressione è ancora elevata (i chip per le auto e quelli per i data center sono sempre molto ricercati), per altri la crisi dei consumi sta spingendo alcuni giganti del settore a rivedere le stime dopo due anni di grande crescita. Così nell’articolo: Secondo International Data Corp., le spedizioni di personal computer dovrebbero diminuire dell’8,2% quest’anno. Ma la pressione della domanda di chip potrebbe affievolirsi ulteriormente con l’indebolimento delle vendite di smartphone, che secondo le previsioni di IDC dovrebbero diminuire del 3,5% nel 2022. Due fattori non banali per un’industria, quella dei chip, che secondo McKinsey avrà un valore di 1 trilione di dollari entro la fine del decennio. Rimane il capitolo legato all’automotive, che per tipologia di microprocessori (meno complessi e meno evoluti) guarda con scarso interesse a ciò che succede al mondo di smartphone e Pc. La crisi dei chip, che in quest’ultimo anno e mezzo ha costretto i produttori di automobili a far lievitare notevolmente i tempi di consegna, attualmente non sembra aver allentato la sua presa. Ma c’è una sorta di ottimismo crescente fra gli addetti ai lavori, e la svolta potrebbe arrivare prima del previsto.
L’articolo si conclude con una considerazione: anche per il mercato delle automobili potrebbe presto verificarsi il paradosso dei semiconduttori, vale a dire un riassestamento della filiera delle forniture determinato dal calo della domanda di prodotti finito.