Il mondo dell’Environmental, Social and Governance sta coinvolgendo sempre più i leader di tutto il mondo. Le conferme in questo senso giungono dalla piattaforma americana Bloomberg, secondo cui l’80% dei capi d’impresa non prende decisioni importanti senza prima considerare proprio i fattori legati all’ambiente, alla società e alla governance. Fra le ragioni principali per cui i datori di lavoro considerano ormai fondamentali ambiente, socialità e governance vi sono la possibilità di ottenere risultati più efficaci (44%) e la social responsibility (40%). Il trend coinvolge anche l’Europa e l’Italia, che segue l’andamento, si sta rivolgendo al modello d’Industria 5.0. Molte le imprese italiane che stanno realizzando iniziative strutturate. Rivolge attenzione al tema il magazine Affari&Finanza (Gruppo Gedi – La Repubblica), con articolo a firma di Pierpaolo De Mejo pubblicato lo scorso 26 giugno: È un trend che coinvolge anche l’Europa, in particolare l’Italia: il 59% delle nostre organizzazioni ha un comitato Esg, ovvero un team interno all’azienda che svolge funzioni propositive e consultive nei confronti del Consiglio di Amministrazione in materia di sostenibilità e innovazione. Anche il mondo finanziario è coinvolto, grazie alle iniziative intraprese da realtà come Gruppo Finservice S.p.A., organizzazione di spicco nel mondo della finanza agevolata. (…) «L’Industria 5.0 segna un’epoca di trasformazione radicale, unendo la centralità dell’essere umano alla sostenibilità e all’innovazione tecnologica», ha affermato Guido Rovesta, presidente di Gruppo Finservice.

Come sottolinea Di Mejo nel suo articolo, la sostenibilità diventa dunque un percorso innovativo per le aziende che dopo un’attenta analisi iniziale che riguarda le priorità e la situazione di partenza, individuano le migliori strategie e tutti gli strumenti più utili al raggiungimento degli obiettivi prefissati. È un percorso in continuo divenire e aggiornamento, nel quale l’ascolto e la condivisione di bisogni e soluzioni rivolte al futuro dell’impresa e dei suoi dipendenti rendono la sostenibilità utile anche per il territorio e l’intero tessuto sociale. Un principio e una consapevolezza basate sul fatto che le attività in abito Esg non sono “accessorie” alle dinamiche d’impresa, bensì elementi alla base dello sviluppo dell’impresa stessa.

Emergono le prime evidenze importanti dalla consultazione pubblica lanciata dalla Commissione Ue nell’ambito del Connectivity Package, i cui risultati completi saranno presentati entro fine luglio. Gli obiettivi europei del decennio digitale sono in affanno: per gli investimenti in fibra e 5G mancherebbero nelle casse delle Telco oltre 200 miliardi di euronecessari a finanziare i nuovi progetti per la rete ultra-veloce entro il 2030. Tanto è vero che si riparla di obbligare le grandi piattaforme digitali a contribuire alla realizzazione delle reti. Si occupa dell’argomento Cor.Com – Il corriere delle telecomunicazioni con un articolo a firma di Patrizia Licata pubblicato lo scorso 27 giugno: All’appello mancano almeno 174 miliardi di euro per realizzare l’infrastruttura in fibra e il 5G entro il 2030, ma la cifra potrebbe essere superiore. “Abbiamo questa cifra di 174 miliardi di euro, ma è una cifra relativamente prudente”, ha affermato Kloc, a capo della divisione “Decennio digitale e connettività” nel dipartimento digitale della commissione. “Se guardiamo a livello globale e oltre il 2030, pensiamo che questo gap di investimenti sia molto più alto”, ha affermato. Ovvero le telco europee potrebbero aver bisogno di più di 200 miliardi di euro – addirittura quasi 230 miliardi.

Come sottolinea Federica Licata nel suo articolo, il tema degli investimenti nelle nuove reti è diventato centrale nel dibattito europeo e ha portato all’ipotesi di un contributo, il cosiddetto Fair shsare, da parte delle grandi piattaforme digitali, come YouTube e Netflix di Google, ai costi degli operatori di telecomunicazioni per implementare l’infrastruttura di rete 5G e in fibra: Deutsche Telekom, Orange, Telefónica e Vodafone hanno sostenuto che i grandi fornitori di contenuti dovrebbero contribuire con una “quota equa” agli aggiornamenti dell’infrastruttura, perché sono responsabili della maggior parte del traffico di rete in Europa. Una consultazione della Commissione sull’opportunità di introdurre regole per imporre alle grandi piattaforme di contribuire ai costi degli operatori di telecomunicazioni si è conclusa il 19 maggio. Kloc ha dichiarato che la valutazione dei risultati sarà pubblicata dalla Commissione prima della pausa estiva alla fine di luglio. Da ricordare inoltre come all’interno delle politiche per il Decennio digitale, la Commissione europea ha anche proposto il Gigabyte infrastructure act, un aggiornamento della direttiva sulla riduzione dei costi della banda larga che dovrebbe aiutare a snellire gli iter autorizzativi per gli scavi e la posa della fibra, rispondendo così alle esigenze di semplificazione normativa delle Telco.

Il Governo italiano ha un piano che prevede di dirottare buona parte dei fondi del Recovery Plan sui progetti di efficientamento energetico, come Repower-Eu. Ciò sarebbe possibile soltanto con una clausola approvata da Bruxelles, che dovrebbe arrivare entro la fine di agosto. In tal senso, il ministro degli Affari Europei, Raffele Fitto, ha fatto il punto della situazione a Bruxelles con il Commissario all’economia, Paolo Gentiloni. L’accordo sulla terza tranche dei finanziamenti del PNRR, 19 miliardi di euro legati agli obiettivi raggiunti a fine 2022, non dovrebbe tardare. Anche per queste risorse le infrastrutture energetiche hanno un posto di rilievo. Dedica attenzione al tema il Corriere della Sera con un articolo a firma di Mario Sensini, pubblicato lo scorso 30 giugno: il governo italiano, fiducioso di poter ottenere in tempi brevi un’intesa sul pagamento della terza rata dei fondi del Pnrr, ha già trasmesso a Bruxelles, per una valutazione preliminare, una lista degli investimenti che dovrebbero confluire nel Repower-Eu, il fondo destinato a finanziare la transizione energetica che nascerà con la riprogrammazione degli interventi del Piano. Progetti che valgono da un minimo di 10 a 20 miliardi di euro e che, dopo le verifiche della commissione Ue, saranno identificati in agosto dal governo, con la revisione del Pnrr nazionale.

Come ricordato nell’articolo, gli obiettivi finali che il Piano nazionale di ripresa e resilienza si pone sono tanto ambiziosi quanto fondamentali: realizzare la transizione green del Paese favorendo la diffusione di fonti di energia rinnovabile, l’economia circolare e lo sviluppo sostenibile. Si tratta di questioni che già nel pieno della pandemia la Commissione europea aveva indicato come temi chiave da affrontare, in linea con gli obiettivi UE in materia di energia e clima. Obiettivi che si rivelano decisivi ancora di più ora, nel pieno di una crisi energetica che ha portato prepotentemente alla ribalta il ruolo chiave della transizione green per rendere il Vecchio Continente autonomo sotto il profilo energetico. In linea con quanto previsto da Next Generation EU, il Recovery italiano prevede non a caso che il 37% dei finanziamenti europei vadano a progetti green, una cifra che sfiora i 60 miliardi di euro. Nell’articolo di Sensini si sottolinea inoltre come Per centrare gli obiettivi di spesa, che restano determinanti, Fitto lavora su tre fronti, il Pnrr, i fondi europei di coesione ed il Fondo nazionale complementare al Pnrr da 30 miliardi. Tre vasi comunicanti: il finanziamento dei progetti Pnrr che stentano potrà essere spostato sui fondi europei cofinanziati dall’Italia, che hanno un orizzonte temporale più lungo, liberando nel Pnrr spazio per le nuove misure del Repower-Eu.

Nella visione di Human Smart City, la città riprogetta infrastrutture e servizi coniugando lo sviluppo tecnologico e la sostenibilità con la centralità del cittadino. La digitalizzazione sta spingendo a ridisegnare tempi e spazi nelle città, consentendo di rimettere la qualità della vita al centro dell’attenzione delle Amministrazioni. I cittadini danno sempre più valore alla vivibilità delle loro città e alla prossimità dei servizi, intesa come facilità nel raggiungerli e nell’utilizzarli. Si fa sempre più forte l’esigenza di avere una città “a misura di persona” in cui vivere e lavorare. Il tema della città dei 15 minuti (uno spazio urbano progettato per consentire al cittadino di raggiungere entro 15 minuti da casa tutto quello che gli serve per vivere) risponde proprio a questa nuova esigenza. Dedica attenzione all’argomento il quotidiano Il Sole 24 ore, con un articolo a firma di Luca De Biase pubblicato lo scorso 2 luglio: Il modello della città americana, fondata sull’automobile, è in crisi, con le sue aree specializzate per abitazioni, uffici, commercio e servizi, con il suo inarrestabile commuting, con l’inquinamento conseguente e con la ricerca spasmodica di soluzioni per il wellness di fronte al problema crescente dell’obesità e della perdita di socialità. Oggi la nuova infrastruttura fondamentale è la tecnologia digitale. Le conseguenze non saranno virtuali, ma reali e materiali.

Come sottolinea De Biase nel suo articolo, dal Dopoguerra le città hanno vissuto nell’ansia di non avere abbastanza posto per le macchine. Hanno abbattuto abitazioni per far posto a parcheggi. Ma oggi si diffonde la consapevolezza che per aumentare la qualità della vita e ridurre l’inquinamento in città, va ridotto l’uso dell’automobile nella vita quotidiana. Riflessione alla quale segue subito una domanda: Può darsi che la nuova infrastruttura digitale sia l’inizio della vera correzione? Oggi, al centro dello sviluppo non c’è più l’auto ma internet, con il telefono e il computer. E molto va riprogettato. Il digitale consente di ripensare il lavoro: lo smartworking è una soluzione attraente e una sfida organizzativa. Gli stessi servizi pubblici vanno ristrutturati con il digitale, anche se non basterà la tecnologia a cambiare un’interpretazione conservatrice della burocrazia. In ogni caso ci vorrà tempo perché l’urbanistica centrata sullo smartphone prenda il posto di quella basata sull’auto privata. Probabilmente, la sintesi arriverà col digitale applicato all’auto elettrica senza guidatore, disegnata come infrastruttura da condividere, che libera lo spazio occupato dai parcheggi in città. Potrebbe essere una forma di adattamento che sarà resa necessaria dall’emergenza climatica? È solo una delle ipotesi possibili. Ma senza questo livello di immaginazione, la correzione della vita cittadina per l’epoca post-automobilistica, resta ancora un’utopia.

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