Tim e Cdp accelerano sulla rete unica. Lo scorso 2 aprile è stata emessa una nota di TIM su richiesta della Consob, generata per fare più chiarezza sulle tante voci che si rincorrevano sugli sviluppi delle trattative che stanno coinvolgendo anche l’azionista Krr. Si è giunti così tra Tim e Cdp Equity (azionista al 60% di Open Fiber) ad un memorandum dedicato a obiettivi e parametri dell’integrazione tra l’infrastruttura dell’ex monopolista e quella di Open Fiber. Ora è stato annunciato che il 7 luglio sarà presentato il progetto di riorganizzazione di Tim, una data che presuppone la preventiva definizione di nodi fondamentali come la rete unica. Dedicano attenzione al tema tutti i principali organi di stampa, fra cui Milano Finanza con un articolo a firma di Pierluigi Mandoi, pubblicato lo scorso 5 maggio: “Sono ottimista sul fatto che si possa chiudere anche abbastanza rapidamente, diciamo in qualche giorno”. L’amministratore delegato di Tim, Pietro Labriola, ha commentato così i progressi nelle trattative con Cassa Depositi e Prestiti per il Memorandum of Understanding relativo alla rete unica, ossia la fusione degli asset infrastrutturali dell’ex monopolista con la rete di Open Fiber. Nella conferenza stampa di presentazione dei risultati trimestrali della società, il ceo ha cercato di rassicurare i portatori di interesse, spiegando che “sta andando tutto come immaginavamo. C’è stato qualche ritardo ma non è legato a nessun tipo di attrito”. Nel contesto dell’accordo al tavolo c’è anche il fondo Kkr, socio di minoranza con il 37,5% di Fibercop, azienda in cui lo scorso anno è confluita la rete secondaria di Tim. “È tutto nelle dinamiche più classiche in un contesto quale quello esistente”, ha dichiarato Labriola.
Nell’articolo di Milano Finanza si ricorda come il fondo americano è anche un player nella diversa, ma parallela, partita relativa all’accordo commerciale tra Fibercop e Open Fiber sulle aree bianche. Inoltre, sempre nell’articolo, si sottolinea come malgrado la mancata concretizzazione dell’Opa con Kkr, Tim è aperta a collaborare con il fondo e con qualunque altro investitore industriale e finanziario, proprio sulla base di un nuovo piano finanziario definito dal Cda. Prosegue così l’articolo: Il prossimo 7 luglio l’ex monopolista presenterà il nuovo piano industriale che, ha spiegato la società, “superando il modello di integrazione verticale, consentirà di accelerare il percorso verso una generazione sostenibile di flussi di cassa e di far emergere il valore intrinseco degli asset di gruppo”, mediante lo scorporo degli asset infrastrutturali con la creazione di Netco. Un piano che ha visto nei giorni scorsi l’interesse del fondo britannico Cvc nei confronti della newco che, dopo la divisione, gestirà il ramo dei servizi alle imprese.
La controllata dal ministero dell’Economia Cdp e i fondi Blackstone e Macquarie hanno perfezionano l’acquisto dell’88% di Autostrade per l’Italia e verseranno nelle casse di Atlantia 8,2 miliardi di euro. Il valore complessivo di Aspi oggi è quantificabile in 9,3 miliardi; nel 2018, prima del crollo del ponte Morandi, gli analisti finanziari calcolavano per Aspi un valore intorno ai 14 miliardi. Con il voto favorevole dell’assemblea dei soci si archivia così la lunga stagione del contenzioso col governo. In cui la revoca della concessione era stata minacciata più volte senza però portare a nessun risultato concreto. Dedica attenzione al tema Il Sole 24 ore con un articolo a firma Laura Galvagni, pubblicato lo scorso 5 maggio: Il tutto è avvenuto a circa un anno dal primo via libera formale alla vendita: il 31 maggio del 2021 infatti i soci di Atlantia avevano dato il loro assenso alla valorizzazione. Formalizzata poi l’11 giugno scorso con l’accordo Spa (Sale and purchase agreeement) tra la compagnia e Cassa. Autostrade per l’Italia, privatizzata nel 2000 con un incasso complessivo per lo Stato di circa 8 miliardi, torna dunque in mano pubblica. Lo fa con un piano strategico già scritto che vale da qui al 2038 14,5 miliardi di investimenti e 7 miliardi di interventi in manutenzione. Alla guida, come detto, ci saranno Cassa Depositi e Prestiti e i fondi Macquarie e Blackstone. Quest’ultimo è lo stesso che ora affiancherà i Benetton nell’altra partita chiave apertasi con la chiusura della vicenda Autostrade, ossia l’Opa di edizione su Atlantia.
Come si sottolinea nell’articolo, Edizione e Blackstone, con il supporto anche di Fondazione CrTorino, hanno messo sul piatto 12,7 miliardi per conquistare Atlantia. Per promuovere l’Opa i Benetton e il fondo hanno costituito una newco, Schemaquarantatrè, che è interamente controllata da un altro veicolo, battezzato Schemaquarantadue, che rappresenterà la holding di riferimento del nuovo gruppo. Sempre nell’articolo si ricorda inoltre: Nel mentre con le risorse a disposizione, derivanti anche dalla cessione di Aspi (8 miliardi pari più o meno al debito contratto dal veicolo per lanciare l’offerta), Atlantia promuoverà il piano strategico già deliberato. Il 15 giugno 2021 la compagnia ha infatti presentato le proprie linee guida di sviluppo, basate su nuovi investimenti nel settore autostradale, aeroportuale e in quello dei servizi digitali per la mobilità.
Quando Mark Zuckerberg ha annunciato il nuovo nome di Facebook, Meta, e l’intenzione di investire per la creazione del metaverso, è sembrato fin troppo visionario. Oggi però Meta comincia ad avere un impatto anche sul mercato del lavoro, in maniera diretta. Prima di tutto vi è la necessità di “alimentare” e fare crescere direttamente il nuovo protagonista della digitalizzazione, quindi inserendo persone negli incarichi al servizio del suo sviluppo: dal software, al design, alla promozione infrastrutturale di questo nuovo mondo. Dedica la tema attenzione il quotidiano La Repubblica, con un articolo a firma di Barbara Ardù, pubblicato lo scorso 6 maggio: Saranno tante le opportunità di lavoro per le figure che dovranno costruire un nuovo mondo. Ci sarà così tanto da progettare, che la richiesta di alcune profili professionali sarà molto elevata. Dall’architetto al costruttore che dovrà trasformare in realtà la loro visione. Mestieri nuovi, ma con basi da programmatori, sviluppatori, ingegneri del software ed esperti di blockchain. E forse inizieremo a parlare di nativi virtuali, che avranno la capacità di far convivere reale e virtuale.
Interessante notare che, secondo le attuali previsioni, i nuovi posti di lavoro non sono destinati solo a ingegneri, informatici e sviluppatori di software, maper abbellire il nuovo “mondo” sono necessari tutti i tipi di designer: da coloro che si occupano della modellazione 3D, alla grafica e all’interior design. A questo proposito, si sottolinea nell’articolo: “Il mondo legato al Metaverso – precisa Luca Balbo, Executive manager della divisione ICT & Digital di Hunters, brand di Hunters Group (società di ricerca e selezione di personale qualificato) – rappresenta una grande opportunità per tutte le aziende, ma soprattutto una enorme opportunità professionale per i profili, giovani e meno giovani, che hanno solide competenze in campo tecnologico e digitale. È difficile fare previsioni – aggiunge Baldo – ma possiamo certamente affermare che le retribuzioni per chi lavorerà nel Metaverso sono e saranno molto interessanti, dai 35.000 euro per i profili junior, superiori ai 60.000 euro per i senior”. Uno scenario interessante considerando inoltre che, come pronostica Citigroup, una delle principali banche di investimento americane, il valore di mercato del Metaverso potrebbe raggiungere, entro il 2030, dagli otto ai tredici trilioni di dollari. Se queste sono le previsioni, certamente il metaverso avrà bisogno anche di una nuova economia del lavoro, che coinvolgerà molti settori e molte professioni. Nel frattempo creerà una miriade di opportunità di impiego. Anche nel mondo del turismo, ad esempio, così importante per l’economia Italiana. Proprio come gli ingegneri, i designer e gli architetti, infatti, anche gli esperti del settore dei viaggi potranno applicare le proprie conoscenze nel metaverso. Prenoteremo i viaggi in forma di avatar, vivendo un “trailer” del viaggio stesso in forma virtuale.
La BEI, European Investiment Bank, principale azionista del Fondo Europeo per gli Investimenti, attua annualmente una delle più importanti indagini sullo “stato della digitalizzazione” nel Continente. I dati del più recente report rivelano che le aziende italiane stanno procedendo bene per quanto concerne adozione di IoT, analytics, intelligenza artificiale e robotica, ma la rincorsa alla media europea rimane ancora un obiettivo di non immediato raggiungimento. Ne parla Cor.Com – Il Corriere delle comunicazioni, in un articolo pubblicato lo scorso 6 maggio: Secondo i risultati, il 46% delle aziende nell’Unione europea ha intrapreso azioni per diventare più digitali. Ma esistono differenze significative tra imprese grandi e Pmi, tra settori industriali e tra Paesi. Nell’Europa occidentale e settentrionale il 48% delle imprese ha dichiarato di aver intrapreso iniziative di digitalizzazione o di investire per diventare più digitali, rispetto al 43% dell’Europa meridionale e al 37% dell’Europa centrale e orientale. L’Italia si posiziona al 40%, sotto la media Uee della regione meridionale. Facciamo molto meglio della media sull’adozione delle tecnologie avanzate: il 65% delle nostre imprese contro il 61% di quelle dell’Ueimplementa soluzioni digitali come stampa 3D, robotica avanzata, Internet of things, analisi dei big data e intelligenza artificiale, droni, realtà aumentata o virtuale o piattaforme digitali. Il 49% delle nostre imprese ha aumentato la digitalizzazione e scelto anche soluzioni avanzate durante il Covid-19 contro il 53% nell’Ue.
L’articolo si concentra poi sul divario tra Europa e Stati Uniti, ricordando che la quota di imprese che utilizzano tecnologie digitali avanzate è più alta negli Stati Uniti (66%) che nell’Unione europea (61%). Negli Usa quasi la metà (il 48%) delle imprese non digitali ha sfruttato l’emergenza Covid per digitalizzarsi, contro il 34% dell’Ue. Nell’Unione europea il 53% delle aziende che avevano già adottato tecnologie digitali avanzate ha investito ulteriormente nella digitalizzazione durante la pandemia; negli Stati Uniti lo ha fatto il 64%.Alla luce di questi dati l’articolo sottolinea: L’ampia quota di imprese dell’Ue che non investe nelle tecnologie digitali è preoccupante e potrebbe pesare sulla competitività futura delle imprese, conclude lo studio della Bei. Circa un dipendente su tre nell’Unione europea lavora per un’azienda che non ha adottato tecnologie digitali avanzate né investito nella digitalizzazione, rispetto a circa uno su cinque negli Stati Uniti. Inoltre, il divario digitale tra le imprese potrebbe espandersi nel tempo. Guardando ai prossimi tre anni, le aziende digitalmente avanzate affermano che le loro principali priorità di investimento sono l’espansione della capacità e lo sviluppo di nuovi prodotti, processi o servizi. Le aziende non digitali, invece, hanno come priorità il cambio della sede o la sostituzione di macchinari, attrezzature e soluzioni It.