Secondo quanti raccolto e indicato da Randstad Workmonitor, il 78% dei lavoratori che ancora sono in smart working vuole tornare in ufficio appena possibile, in parte per necessità lavorative ma anche per ricominciare a relazionarsi con i colleghi, uscire da una sensazione di isolamento e ricostruire l’equilibrio fra vita professionale e privata che aveva prima della pandemia. Lo studio è una fotografia ampia su smart working, rientro in ufficio e percezione dei lavoratori sui vaccini anti Covid. Dedicano attenzione ai risultati dell’indagine diversi organi di stampa, fra i quali il quotidiano La Repubblica, con un articolo a firma di Rosaria Amato, pubblicato lo scorso 31 gennaio: Lo smart working è dunque al capolinea? Non per tutti: ci sono ancora lavoratori che non sanno più come è fatta l’azienda, ma la stragrande maggioranza è tornata in ufficio, e neanche troppo malvolentieri, visto il caro-energia. Le bollette, però, sono solo una piccola parte del problema: il maggiore ostacolo è la riorganizzazione del lavoro per obiettivi, con un adeguamento dei salari che mantenga l’equilibrio tra chi lavora da remoto e chi lavora in presenza.
A spingere al rientro è anche il bisogno di tornare alla propria quotidianità: il 57% dei lavoratori ha nostalgia del rapporto con i colleghi, soprattutto fra gli uomini (60%) e i dipendenti 45-54enni (65%); quasi uno su quattro si sente isolato (23%), in particolare i giovanissimi (35%) e le donne (25%); e per oltre un terzo sta diventando difficile mantenere un equilibrio fra lavoro e vita privata (35%), con punte del 40% fra le colleghe e del 42% fra gli over 55. Molto meno pressanti le difficoltà “logistiche”, come la mancanza di uno spazio separato per lavorare (indicata solo dal 16%), di una connessione Internet stabile (16%), dell’attrezzatura adeguata (15%) o la condivisione dello spazio di lavoro con i figli (16%) o con il partner lavoratore smart (12%). Le imprese, dal canto loro, hanno dovuto riorganizzarsi per poter garantire la continuità di business e la sicurezza dei lavoratori. Sempre secondo l’indagine di Randstad Workmonitor le imprese hanno risposto positivamente a richieste dei dipendenti, quali l’adozione di regole sugli orari di lavoro e in merito a protocolli chiari e rigorosi per il lavoro in sede e in remoto.
Entro il 2027 il gruppo Fs intende coprire il 40% del proprio fabbisogno autoproducendo energia pulita, con investimenti di oltre 1,6 miliardi sulla rete. Gli obiettivi contenuti nel piano industriale 2022-2031 sono molto ambiziosi e fanno leva su due fattori tra loro in parte collegati: producendo fino a 2,6 TWh da fonti rinnovabili e puntando sempre più su sistemi e tecnologie dove la digitalizzazione è una componente imprescindibile. Rivolge attenzione al tema il magazine Affari&Finanza, con un articolo a firma di Marco Frojo, pubblicato lo scorso 31 gennaio: Il bando lanciato da Ferservizi il 9 gennaio scorso si compone di quattro lotti e copre l’intero territorio italiano, con l’individuazione di apposite aree di proprietà Rfi (la società di Fs gestore dell’infrastruttura ferroviaria e capofila del Polo infrastrutture del gruppo) e Anas (la società delle strade del Polo infrastrutture) (…). Nel corso dell’anno una nuova gara per ulteriori 40 impianti consentirà al gruppo Fs di erogare già nel 2024 una potenza di oltre 300 megawatt con l’obiettivo di arrivare a 2 gigawatt nel 2027. Gli impianti saranno tutti connessi ai sottosistemi delle gallerie Anas e alle sottostazioni elettriche di Rfi, quindi la loro produzione immessa direttamente nella rete permetterà di utilizzarla per la trazione dei treni. Entro il 2031 Fs punta a raggiungere una produzione di energia dal fotovoltaico pari a circa il 10% di quella attualmente prodotta in tutta Italia dagli impianti a energia solare.
Parallelamente si muovono i progetti per portare sempre più i progressi della digitalizzazione in ambito ferroviario. Un esempio significativo viene dagli elementi frenanti, uno dei capisaldi dell’efficienza e sicurezza del trasporto su rotaia. Alla recente fiera internazionale “InnoTrans 2022” a Berlino se ne avuta una prova tangibile. È stato infatti presentato un innovativo sistema chiamato “Evolution of Braking” che contraddistingue il nuovo tipo di freno elettromeccanico dalla tecnologia “brake by wire” (letteralmente freno a filo) per trasmettere i comandi della frenata ai carri e alle carrozze ferroviarie. In pratica viene mandato in pensione l’attuale sistema pneumatico in uso da decenni per essere sostituito con uno elettrico. Un treno così equipaggiato potrà fare a meno dei complessi sistemi di compressori, serbatoi di aria compressa, linee di aria pressurizzata e idraulica. Le prestazioni durante la marcia si avvantaggiano in quanto l’azione e il rilascio dei freni sono più rapidi, oltre a ridurre gli spazi di frenata ed evitare lo slittamento delle ruote in condizioni di scarsa aderenza. Questa soluzione tecnologia, pur rappresentando in sé e per sé una svolta, perché possa esprimere al meglio le sue potenzialità va però inserita in un contesto innovativo che si chiama trasporto digitalizzato. Sempre a Berlino Knorr-Bremse presenta il “Treno merci digitale”, basato essenzialmente su accoppiatori digitali automatici (DAC) che non vanno confusi con il semplice gancio automatico, ma con un sistema digitale che connette la locomotiva con tutti i carri merci in composizione al treno facendo da interfaccia. Solo in questo modo il trasporto merci diventa effettivamente digitale, taglia drasticamente i tempi occorrenti per la formazione del treno e quindi come diretta conseguenza accresce la competitività della modalità ferroviaria.
Gli ambiziosi obiettivi del Decennio della transizione digitale, quello che stiamo vivendo, non potranno essere raggiunti se non si spingerà l’infrastrutturazione. I forti investimenti in Europa nel settore delle telecomunicazioni, che in Italia sono sostenuti anche dal PNRR, hanno certamente generato progressi importanti nella copertura 5G e Ftth. Ma non basta, perché si rischia di non raggiungere l’obiettivo gigabit per tutti entro il 2030. È quanto emerge dal rapporto “State of Digital Communications 2023” presentato dall’Etno, associazione che rappresenta i principali operatori di Tlc in Europa, sulla base di una ricerca condotta da Analysys Mason. Dedica la tema un suo editoriale Mila Fiordalisi, direttore di CorCom – Il Corriere delle Telecomunicazioni, pubblicato lo scorso 1° febbraio: Rupert Wood, direttore della ricerca di Analysys Mason, evidenzia che “il cattivo stato di salute del settore delle telecomunicazioni va contro gli interessi degli europei. Gli scarsi rendimenti rendono più impegnativi gli investimenti infrastrutturali necessari per raggiungere gli obiettivi del Decennio digitale 2030 e intaccano le speranze di una rinascita dell’innovazione e delle competenze nelle nuove tecnologie di comunicazione digitale”. Secondo le nuove proiezioni, l’Europa raggiungerà circa il 90% di copertura delle reti ad altissima capacità nel 2030 (Ftth, cavo). Ciò significa che l’Europa potrebbe mancare l’obiettivo della “connettività full gigabit per tutti entro il 2030”. E il 10% di scarto si traduce in un gap di decine di milioni di europei in broadband divide. Nel 2022 ca copertura Ftth si attesta al 55,6%, in salita dal 50% del 2021.
Nel suo articolo Mila Fiordalisi ricorda come la copertura della popolazione con le reti 5G è passata dal 62% del 2021 al 73% del 2022, una percentuale decisamente inferiore a quella degli Stati Uniti (96%) – primi in classifica – e di Corea del Sud (95%), Giappone (90%) e anche della Cina (86%). L’Europa è ancora in ritardo rispetto a tutti gli altri Paesi del mondo per quanto riguarda gli investimenti pro capite nonostante nel 2021 siano stati messi sul piatto 56,3 miliardi di euro, picco massimo dal 2016. Nel 2021 gli investimenti pro capite ammontavano a 104 euro in Europa, 260 euro in Giappone, 150 euro negli Stati Uniti e 110 euro in Cina. Se nel 2021 le aziende tecnologiche hanno investito circa 1 miliardo di euro in reti (cioè grandi rotte internazionali e sottomarine, peering, ecc) il resto degli investimenti in infrastrutture digitali da parte delle aziende tecnologiche (ossia 16 miliardi di euro) è stato destinato ai data center. Anche sul tema della innovazione delle reti l’articolo è precisamente documentato: Nel 2022 in Europa si contano 18 offerte di edge cloud (l’Asia-Pacifico ne ha 19, il Nord America 5); per quanto riguarda l’Open Ran, l’Europa conta 6 sperimentazioni, le stesse della Cina mentre gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno ne contano 3 e il Giappone 2. Sul fronte delle reti 5G standalone 4 reti risultano disponibili in Europa alla fine del 2022, contro le 15 dell’Asia-Pacifico e le 3 del Nord America.
Il fondo americano Kkr, già azionista di minoranza con TIM in Fibercop (37,5%), ha avanzato una nuova offerta non vincolante sull’acquisto della rete di TIM. L’offerta di Kkr, si legge in una nota diffusa alla stampa da Tim, “riguarda una partecipazione in una società di nuova costituzione che includerà il perimetro della rete fissa, compresa FiberCop, e la partecipazione in Sparkle”. La quota partecipativa è ancora da definire, aggiunge la nota. Intanto, in Borsa il titolo Tim ha fatto registrare un balzo notevole. Resta però da capire, come hanno sottolineato diversi organi di stampa, quale è il perimetro esatto della Netco di nuova costituzione: tutta la rete, compresa la dorsale in fibra? Nel caso quale quota? Di che valutazione stiamo parlando? Come è noto, Vivendi, attuale azionista di maggioranza Tim, valuta la rete non meno di 30 miliardi di euro. Mentre Cdp avrebbe ipotizzato un’offerta, mai avanzata, di circa 19-20 miliardi. Quanto è disposta a offrire Kkr per la rete, considerato che a novembre 2021 aveva avanzato un’offerta non vincolante per il 100% di Tim pari a 10,8 miliardi di euro? Del tema si occupano tutti i principali media, fra cui il Corriere della sera, in specifici articoli pubblicati offline e on line. Così lo scorso 3 febbraio: La mossa di Kkr è arrivata a sorpresa mentre la Cassa depositi e prestiti e Vivendi stavano cercando un accordo per procedere al riassetto di Tim, di cui la prima ha il 10% e la seconda il 24,3%, con la regia del governo interessato a creare una rete nazionale sotto il controllo di Cdp. È il classico caso dei due litiganti, tra cui si è infilato il fondo Usa. La trattativa tra i due maggiori azionisti del gruppo è andata avanti a lungo, su due diversi tavoli. Il primo avviato a maggio dell’anno scorso con la firma di un memorandum tra Tim, Cdp e i fondi Kkr e Macquarie, fallito a novembre di fronte all’impossibilità di trovare un accordo sul prezzo di cessione della rete alla Cassa. Per trovare una quadra a dicembre dell’anno scorso era entrato in campo il governo aprendo un nuovo tavolo al ministero dell’Industria e Made in Italy in cui erano coinvolte Cdp e Vivendi. Ci sono state interlocuzioni con Kkr per sondare la volontà del fondo Usa ad affiancare Cdp in una cordata creata ad hoc per presentare un’offerta per la rete Tim. Il fondo Usa non aveva dato la disponibilità. I colloqui tra i due grandi azionisti del gruppo telefonico sono andati avanti fino alla scorsa settimana, ma la soluzione non sembrava vicina. E Kkr ha dunque colto l’opportunità di farsi avanti con l’offerta per la rete Tim.
Secondo le ricostruzioni avanzate dagli organi di stampa sembra che il Governo fosse stato avvisato dell’offerta di Kkr. Anche se le notizie potevano essere non uniformi nei vari ministeri interessati. Il commento del Corriere ipotizza vari scenari: Di certo c’è che il governo non ha fermato l’offerta arrivata mercoledì sera sul tavolo di Tim, che a questo punto non si può considerare ostile. È anche vero che il lavoro della Cdp, indicata dal ministro Adolfo Urso come soggetto sotto cui far nascere la rete nazionale, stava prendendo troppo tempo e che in otto mesi di trattative la Cassa non era ancora riuscita a trovare un accordo per presentare l’offerta sulla rete di Tim. È difficile che adesso possa tornare in campo. Diverse voci dicono che per salvaguardare l’interesse strategico sulla rete il governo possa affiancare a Kkr un altro soggetto. Si fanno i nomi di Poste o F2i, il fondo infrastrutturale partecipato tra gli altri dalle fondazioni bancarie.