Forte della sua esperienza di economista e manager, Franco Debenedetti, ora fra gli editorialisti “di punta” de Il Sole 24 Ore, in un recente “commento”, pubblicato lo scorso 25 marzo, si chiede: lo sviluppo della banda ultra-larga deve necessariamente passare dallo scorporo della rete secondaria di Tim? La rete in questione è quella secondaria, che va dalle centrali locali alle unità immobiliari, abitazioni o uffici. Questa rete è di proprietà dell’ex monopolista pubblico. Telecom Italia è diventata Tim, la proprietà è passata più volte di mano, ma tutti gli azionisti di maggioranza hanno respinto la richiesta di venderla a una società delle reti controllata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), il sogno di Franco Bassanini, ex presidente di Cdp e attuale presidente di Open Fiber. Con ragione, perché senza la sua rete Tim non esisterebbe più come grande impresa, sarebbe ridotta a una rete commerciale, oltretutto con ingenti debiti, per i quali la rete fornisce l’indispensabile collateral. Lo sa bene il ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao, che è stato a lungo chief executive officer di Vodafone. Gli altri ex monopolisti, o sono tutti privati, come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, o hanno lo Stato come azionista rilevante ma non dominante, come in Germania e Francia. Separare societariamente la rete secondaria, affidandola al controllo pubblico l’hanno fatto solo Australia e Nuova Zelanda, con risultati che sconsigliano dal riprovarci. In Europa nessuno l’ha fatto, nessuno lo vuole fare, neppure se ne discute in via ipotetica. Oggi tra Tim e gli altri operatori i 30 Mbit/sec sono assicurati in tecnologie cablate (solo fibra o fibra – rame) al 92% delle famiglie. Per velocità fino a 1 Gbit/sec in tecnologia Ftth (Fiber to the home), la società FiberCop – costituta da Tim, Fastweb e il fondo americano Kkr – prevede la copertura al 56% entro il 2025.
Oltre a ricordare anche il ruolo di Open Fiber nello scenario, nel suo articolo Debenedetti sottolinea come, a suo parere, la rete in Italia è sostanzialmente la rete Tim, che Tim continua gradualmente ad ammodernare, come fanno tutti gli operatori storici in Europa: La rete è dunque sostanzialmente la rete Tim: il completamento della sua conversione in rete ottica è già nei piani, lasciargliene la proprietà non è una concessione. Tim ha sempre sostenuto di essere pronta a vendere quote della nuova società della rete, a condizione però di mantenerne il controllo proprietario. In tal senso Tim è già stata indotta dal precedente governo a firmare un generoso memorandum d’intesa con Cdp, nell’interesse di Open Fiber. Non solo: Tim ha già dettagliato e sottoposto all’approvazione del Garante un piano di co-investimento che consente a tutti gli operatori di collaborare agli investimenti, secondo la logica prevista dal Codice europeo delle comunicazioni. Una strada, questa, che consente di raggiungere l’obiettivo politico di ampliare la copertura della banda ultra larga senza necessariamente sconvolgere gli assetti proprietari e l’organizzazione industriale del settore. Se ora il governo italiano, a differenza di tutti gli altri Paesi d’Europa, vuole possedere la rete, la strada è una sola: lanci un’offerta pubblica di acquisto, e si sostituisca nel controllo dell’azienda all’azionista Vivendi che ne ha acquistato la maggioranza. Intendiamoci: è una provocazione, non un suggerimento. Lo Stato italiano se la dovrebbe vedere con l’Europa se lo facesse e sarebbe comunque, a ogni evidenza, un’iniziativa senza senso. E anche senza motivo: risolvere i problemi di Open Fiber fondendola con la rete secondaria di Tim è questione di valutazione degli apporti; gli incentivi per accelerare la copertura in banda ultra larga costano infinitamente di meno. Chi ha creato il problema Open Fiber adesso lo risolva.